Lo sbaglio enorme della scuola italiana
Nata per salvare i più deboli la scuola democratica ha finito per affossare le loro speranze
Il grande abbaglio dei sostenitori della “scuola democratica” è da sempre la convinzione che gli studi dei ragazzi svantaggiati economicamente siano frenati dalla loro condizione di partenza.
Un’interessante libro scritto da Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (Il danno scolastico – La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La Nave di Teseo, 2021, euro 19) svela, dati alla mano, che ciò che compromette la possibilità di riuscita negli studi è al contrario una scuola facile e di bassa qualità che non prepara gli studenti in modo adeguato. È questo l’handicap più grave e l’origine di tutte le disuguaglianze.
Ricolfi sociologo docente di analisi dei dati e la Mastrocola scrittrice a lungo insegnante di lettere nella scuola pubblica, delineano con oggettività e senza pregiudizi ideologici il progressivo degrado della scuola italiana individuando con precisione origini e cause del disastro educativo.
L’esperienza nella scuola pubblica e nell’università degli autori rivela il grande inganno commesso ai danni di genitori e figli: il messaggio secondo il quale se qualcosa è difficile la soluzione è far sparire con un gioco di prestigio la difficoltà anziché portare tutti a saperla affrontare.
Risultato? “L’incapacità dei ragazzi di parlare e di scrivere, non riuscire a costruire un discorso dotato di senso e strutturato secondo una logica. Non riescono a parlare per più di un minuto, si fermano muti o balbettano qualche parola spersa nel vuoto”.
L’anno cruciale è il 2000, l’anno della riforma Berlinguer. I tre i pilastri su cui essa si fonda sono: i progetti extra-curriculari, la valutazione oggettiva e il diritto al successo formativo.
La riforma pretende di trasformare la scuola in un’impresa riproponendone i valori e i criteri della produzione e del mercato, impoverendola definitivamente di ogni contenuto culturale a danno dei più deboli.
I “progetti”, ritenuti più importanti delle materie curriculari, trasformano la scuola. Essa diventa centro di socializzazione, di aiuto psicologico e di formazione della cittadinanza. In breve tempo non si parla più di studio, conoscenza, insegnamento. Le parole magiche diventano apprendimento, formazione, educazione e, soprattutto, territorio.
Con la “valutazione oggettiva” si afferma l’epopea dei “test”. Improvvisamente tutto deve essere “misurato”: la capacità, le competenze, il talento, l’efficacia di un insegnamento. Un insegnante è bravo se risponde a dei parametri prestabiliti. Un tema è da nove solo se risponde ai parametri fissati dal Dipartimento di italiano di ogni singola scuola in una tabella uguale per tutti gli insegnanti di tutte le sezioni. Nemmeno il Politburo nella Russia sovietica avrebbe fatto meglio!
La libertà dell’allievo, che con il tema aveva la possibilità di esprimersi mostrando la sua personalità, i suoi sentimenti, le idee e le conoscenze acquisite ordinandole secondo uno schema logico, è soffocata e sostituita da un grigio e freddo sistema preconfezionato, con schede già belle e pronte.
Infine, la riforma spazza via due parole: dovere e responsabilità. Essere promosso e giungere alla fine del percorso formativo diviene un preciso diritto dello studente. Egli ha il “diritto di avere successo” e non ha nessun dovere di studiare. E se non riesce, la responsabilità non è la sua. È l’insegnante che non è in grado di motivare adeguatamente o è la scuola che non offre corsi di recupero sufficienti.
Poi, siccome ciò che conta non è più il sapere libero ma “il saper fare”, l’insegnante è ormai relegato nella funzione di progettista di percorsi, di personal trainer per l’acquisizione di abilità. Sottoposto all’invadenza dei genitori, strenui difensori dei loro figli, l’insegnante è diventato il nemico che deve spiegare e difendere il suo operato nel timore di ricorsi, processi, condanne.
In questo clima di “tutto uguale per tutti” i ragazzi più bravi e meritevoli, quando non annoiati o dispersi, prendono altre strade. Ricordiamo la meraviglia ipocrita dei nostri intellettuali per la “fuga dei cervelli”, di quei giovani più brillanti che studiano e lavorano all’estero.
La conclusione degli autori è amara: “Una società che si perde i migliori compromette irrimediabilmente il suo futuro”.