ISCHIA, IL BUCO NERO DEL SUICIDIO
Il suicidio è una di quelle cose che distingue gli esseri umani dagli animali. Gli animali muoiono, a volte anche si lasciano morire (soprattutto quelli più vicini all’uomo) ma non si suicidano.
Solo un essere che appartiene alla civiltà, occupandone un posto, può suicidarsi.
È il drammatico rovescio della medaglia di una comunità, che, da luogo nel quale ognuno può raccapezzarsi per trovare un posto, passa ad essere il luogo dal quale invece si può decidere di voler uscire fuori. E non si esce fuori dalla civiltà se non con tutto se stesso, corpo compreso.
Cosa sta accadendo a Ischia? È la domanda che emerge a gran voce. Qualcuno sostiene che l’inverno isolano sia un elemento cruciale per chi abita qui, eppure non è da quest’anno che l’inverno a Ischia, più o meno, è “sempre la stessa storia”. Non disdegno la sottolineatura sulla questione stagionale, ma forse conviene considerare il “mortifero inverno” più come una particolare declinazione temporale del fenomeno, che la causa in sé. Se la causa fosse relativa ai cortocircuiti invernali sociali, economici e lavorativi, il numero delle tragedie sarebbe probabilmente molto più elevato, oggi come in passato.
C’è evidentemente una fragilità soggettiva che incontra una forse più forte fragilità collettiva.
Sulla fragilità soggettiva non se ne può dire granché, semplicemente perché l’essere umano è uno-per-uno. Anzi, sostengo l’ipotesi che può essere addirittura pericoloso tentare di standardizzare, e di sventolare, le componenti soggettive che ci spiegherebbero chi è che più di altri rischia di rivolgersi all’atto suicidario.
Pericoloso innanzitutto per chi resta e non ha potuto farci niente, poiché ne esce devastato; come se non bastasse già il senso di colpa che automaticamente lacera chi ha potuto solo ritrovarsi nella dura realtà della perdita. Immaginate di aver perso un amico, un partner, un familiare, che si sia tolto la vita, e di trovare una lista di segnali di pericolo relativa a chi starebbe per andare a suicidarsi. Vi lacerereste l’anima a leggere delle cose che forse avevate visto ma non avete fatto niente, che forse potevate vedere, che forse non volevate vedere, forse….forse sarebbe meglio che la morte ci metta tutti davanti alla necessità di riconoscere che l’altro è soltanto un povero disgraziato, proprio come noi stessi, che proseguiamo nella vita facendo finta che prima o poi non tocchi anche a noi.
È pericoloso anche per chi non ci è mai passato, poiché comincerebbe a farsi idee sbagliate su chi gli è intorno, e forse anche su se stesso. Tra questi segnali, ironicamente, ne indico uno, prelevato dal sito del Ministero della Difesa: “Disperazione: non si può far nulla per migliorare una situazione, anche personale”. Anni e anni di ricerche devono esserci voluti, per indicare che la disperazione è un elemento importante per l’atto suicidario. Dunque se notate un caro disperato per qualcosa, aprite gli occhi. Ma scusate, se una persona che amiamo è disperata, non è che sia necessario immaginare che rischi di farla finita, per starle vicino. Credo. Spero. Chissà se sono un credulone.
Infine è pericoloso per chi, caso mai, senta la necessità di identificarsi disperatamente in qualcosa, fosse anche uno scarto, come quello che ormai sui notiziari si chiama “un altro suicidio”, nell’anonimato totale. Si costruisce in un batter d’occhio la categoria di quelli che si suicidano. Per non parlare della possibilità di cogliere, quindi anche in se stessi, dei “buoni motivi” per agire allo stesso modo. L’identificazione, questo lo possiamo dire, è più forte del sapere e della consapevolezza.
Sulla fragilità collettiva, invece, possiamo ragionare un po’.
Potremmo interpretare la decisione di chi smettere di vivere come la volontà di cessare di scrivere il suo essere. L’immagine che vi propongo è quella di un libro “vivo”, che scrive da solo le sue pagine, e poi, improvvisamente, decide di strapparsi. Ma attenzione, strapparsi non è la stessa cosa di scrivere la parola “fine”. La parola fine è pur sempre un modo di presentarsi all’altro in una forma completa, finita appunto, con tanto di copertina, di introduzione, di trama, di senso, e dunque di finale. La parola fine sarebbe, in questa metafora, la cosiddetta “morte naturale”, come quando si pronunciano le famose “ultime parole”. Questo è piuttosto un libro che si interrompe, che, invece di costruire fino in fondo la sua storia, non scrive la parola fine, ma “la fa finita”. E un libro, in questa fantasia, la farebbe finita solo se si rendesse conto che non ci sarà nessuno a leggerlo.
La collettività, fin dalle prime civiltà umane, è un dispositivo atto a limitare la capricciosità degli istinti, che “si danno una regolata” in favore del legame con l’altro. In questo legame possiamo trovare un posto, poiché solo nel rapporto con l’altro definiamo noi stessi, la nostra soggettività, le nostre passioni, i nostri dolori, i nostri desideri.
Una collettività è dunque innanzitutto un luogo in cui sentiamo di avere un senso di esistenza, di umanità, perché c’è un Altro che questa esistenza la riconosce. Ci danno un nome, entriamo di diritto nella società come “figli di”, per poi attraversare esperienze e legami che arricchiscono il nostro essere: studente, lavoratore, amico, fidanzato, padre, madre, bullo, vittima… Ognuno di questi nomi dicono qualcosa in più di chi siamo. Che poi questo essere si arricchisca nel bene o nel male, nel piacere o nel dolore, per il momento non conta troppo per il nostro discorso.
Conta che, nel bene o nel male, continuiamo ad “essere”. Ma lo ripetiamo, si può essere soltanto liddove un altro lo riconosca.
“Passaggio all’atto” lo definisce la clinica psicoanalitica, per indicare quel momento in cui un soggetto esce di scena, per entrare in un buco, un luogo senza fondo e senza nome, che comunemente localizziamo nella morte. La morte: ciò che non si può dire.
L’atto, in questa accezione, è ciò che si oppone alla funzione della parola, che invece tiene in vita: chi parla, è senza dubbio vivo. Ma non solo: si parla sempre a un altro, che, eventualmente, ascolta. E parlandogli, rendo anche l’altro vivo. Vive uno che parla, e vive l’altro che lo ascolta.
Se c’è la chance che le parole trovino qualcuno che le riceva, ci si mantiene in vita, eventualmente anche soltanto per tornare a dirgliene quattro. Perché, nel bene o nel male, le parole fanno legame; ne consegue che la possibilità di parlare, e dunque di vivere, è possibile liddove esiste una struttura sociale dove la parola può svolgere la sua funzione: far esistere il soggetto, con l’altro.
Da questo punto di vista forse la nostra comunità sta cominciando a soffrire di un gravissimo sintomo. Lo indico come gravissimo, perché è un sintomo al servizio della pulsione di morte: al posto dei luoghi dove la parola può dare riconoscimento, confronto, legame, si stanno aprendo dei buchi neri. I buchi neri sono ciò che resta delle persone che ci lasciano attraverso l’atto suicidario. Non semplicemente “morendo”, ma proprio col suicidio, perché con esso il soggetto scava un buco nella struttura sociale, rivolgendosi all’indicibile della morte. Il suicidio, infatti, a differenza di ogni altro tipo di morte, per la quale un significato può solitamente essere trovato (morte naturale, omicidio, incidente…il significato è più o meno dispiegabile) apre ad un interrogativo strutturalmente irrisolvibile: perché lo ha fatto? E non potrà mai più tornare indietro per spiegarcelo. Questo è il buco nero.
Un soggetto che si spinge fuori dal legame con l’altro, strappandosi violentemente dalla sua appartenenza storica e sociale, sta dicendo alla collettività che i luoghi di parola stanno diventando dei buchi neri. Che il legame collettivo è a rischio di strappo.
Quando ero un ragazzino, nei luoghi di vita (istituzionali e non) era difficile non farsi un nome, fosse anche un nome deprezzato o attinente alla criminosità. Ma era pur sempre un nome, un posto: si esiste se l’altro ci riconosce.
È possibile che la collettività attuale, anche al di là di Ischia (in Italia abbiamo una media di un suicidio ogni 10 ore), stia portandoci a quella che potremmo definire un’esistenza senza essere (dicevamo: si è…Francesco, Anna, medico, contadino, marito, moglie, ecc, solo se c’è un altro che lo riconosce). Inoltre, il discorso sociale attuale deputato al godimento immediato dell’oggetto e del corpo dell’altro (nel reale o nelle immagini), espone i legami ad un continuo rischio dello strappo, come quel libro di cui vi raccontavo.
Più che un elenco di segnali di pericolo, proporre una seria di questioni: con chi si parla? Dove si parla? Chi ci ascolta? Chi si ascolta? E poi, ci interessa veramente ascoltare l’altro? È possibile soddisfarsi dei legami che si hanno? C’è almeno un essere umano verso il quale siamo, almeno un pochino, sicuri di essere necessari?
Sopra a un pantalone bucato, non c’è cucitura possibile, non resta che metterci una toppa. Il buco non si cuce. Il buco resta, e il rappezzo, tutto sommato, testimonia proprio dell’esistenza del buco, lì sotto. Ma almeno non ci si casca dentro. Nel nostro collettivo, alcuni pezzi, come la stoffa originaria, sono andati perduti per sempre, ma l’invenzione di nuove forme di legame sociale, nuovi luoghi dove rammendare, che tengano insieme i pezzi staccati tra di loro, è l’invito più logico a recuperare la funzione che tiene in vita l’essere umano: la parola.
Rammendiamoci, rammentiamoci.