L’INFLAZIONE DELLE FORMAZIONI YOGA
(Guru-Shishya Paramparā: quando l’allievo non cliccava iscriviti al canale)
Il Viaggiatore era abituato a inciampare nei tappetini, nei parchi, nei festival, perfino nei vicoli più silenziosi delle città di provincia ma non si sarebbe mai aspettato di inciampare in un’insegnante di yoga… ogni dieci metri.
«Sai, ho appena finito un 200 ore. Sto pensando al 300. Così magari apro il mio studio o un canale YouTube oppure tutte e due.»
Il Viaggiatore annuiva, come si fa con chi ti parla di una nuova dieta detox ma dentro, qualcosa lo pungeva.
«Ma quand’è che essere insegnanti è diventato più facile che essere allievi?
Il mercato delle formazioni yoga è rigoglioso come le erbe spontanee; ovunque ti giri, spunta un corso, un certificato, una promessa di “trasformazione personale”. Peccato che spesso, nel trambusto dei diplomi e delle foto in equilibrio su una scogliera, si perda un bel po’ l’identità della tradizione orientale che definisce perfettamente il rapporto tra guru e shishya, il discepolo.»

Il Viaggiatore buttò li una domanda a caso: «ma il guru-shishya paramparā esiste ancora o è già stato trattato con un filtro trasparenza?»
Riflettendo, come se stesse preparando domande e risposte da lasciare nell’aria, per chi voleva ascoltare. Non era lì per giudicare. Aveva idee, curiosità.
«Credo che il fenomeno di scuole, corsi, corsisti e insegnanti cresca troppo rapidamente con troppa leggerezza, non è un processo alle Formazioni, non esistono Le formazioni yoga di serie A e di serie B perché anche nel programma più caotico, nel weekend intensivo col pranzo vegan incluso e il diploma pronto già la domenica pomeriggio, c’è sempre almeno un seme, un’idea, un insegnante che non ti insegna nulla… ma ti fa venire voglia di scavare. Lo yoga, dopotutto, è anche questo: distinguere, setacciare, digerire, ma non così velocemente, correre verso la destinazione fa perde molto del viaggio.»
Nonostante tutto, il Viaggiatore, cercava sempre il lato positivo in ogni situazione: «È bello sapere che sempre più persone decidano di condividere, che si prendano il tempo di portare un po’ di respiro in mezzo al caos.»
Ma un dubbio era più forte degli altri: «formazioni brevi, a pacchetto… danno veramente la possibilità di prendersi il tempo per essere allievi prima di diventare insegnanti? possono davvero contenere il seme del Guru-Shishya? Certo che se ti indichi la luna e guardi il certificato… allora ti sei iscritto al corso sbagliato.»
Negli ultimi tempi, aveva notato che anche il rapporto tra maestro e allievo, quello che un tempo era sacro, era diventato spesso un concetto vago. A volte trasformato in marketing, altre ridotto a un paio di weekend intensivi con attestato finale. Eppure, anche qui, non c’è nulla di male. L’evoluzione aveva portato nuove possibilità, più accessibilità, più apertura, più dialogo. Il guru, oggi, può assumere forme inaspettate; lo yoga si adatta ai tempi e ai diversi tipi di società, è in continuo cambiamento. Il Viaggiatore scrollò appena le spalle, come fanno quelli che non vogliono sembrare troppo nostalgici, ma lo sono un po’.

«Un tempo, in India, si trasmetteva tutto a voce, da maestro a discepolo. Si chiamava paramparā. Non era solo tradizione era tempo, relazione, dedizione. Non c’erano dispense, solo ascolto, non c’era fretta, solo pratica. Una conoscenza che cresceva piano, come le cose che devono restare. È vero che il guru non è più solo l’asceta nella foresta ma è anche vero che non tutto ciò che brilla di sanscrito è paramparā.»
Fece una pausa, mentre passava davanti all’ennesimo studio con la vetrina colorata e il corso di 25 ore per diventare “Tantric Breathwork Motivator”.
«Nella tradizione indiana, il sapere dello yoga non si passava tra slide e dispense, ma tra sguardi e silenzi. Il Guru-Shishya Paramparā era questo: una relazione viva tra maestro e discepolo, fatta di fiducia, presenza e tempo condiviso. Il maestro non insegnava per mestiere, ma per trasmissione, e il discepolo non imparava per insegnare, ma per trasformarsi. Era il guru a scegliere il discepolo, non il contrario, sempre il maestro decideva quando e cosa trasmettere, secondo il momento giusto, secondo la maturità e la disponibilità del discepolo. Non c’erano piani di studio, solo uno scambio intimo e profondo, dove la conoscenza era un dono che si guadagnava un passo alla volta.

Il paramparā era questo, un passaggio di testimone da guru a discepolo che diventa maestro, non per diritto acquisito ma per trasformazione avvenuta. Un filo sottile, ma fortissimo, che univa generazioni di cercatori in un’unica corrente di consapevolezza. Oggi… be’, oggi la conoscenza è diventata rapida, accessibile, impacchettata. Si può “trasformare la vita” in un weekend. Ma la verità è che ciò che si assorbe in fretta, si perde con la stessa velocità, senza radici, non si cresce, al massimo… si galleggia.» Poi, come a giustificare il tono un po’ ruvido, aggiunse: «Oh, non è colpa di nessuno è il mondo che corre, ma lo yoga, quello vero, cammina e spesso lo fa a piedi nudi, nel fango.» E con quella frase lasciò che anche il lettore ci camminasse un po’ dentro.
Il Viaggiatore rallentò il passo e concluse: «tutto questo certificare mediatico e veloce, passare da allievo a insegnante con un bonifico on-line e tre scroll, può condizionare le nostre certezze, metterci in condizione di credere che il cammino, che tu sia allievo o maestro, possa essere in un certo senso più breve, facile con risultati immediati e traguardi luminosi come i filtri delle stories di Instagram. il guru-shishya paramparā, questo non lo permette perché apprendere per tramandare ha le sue regole, necessita di tempi lunghi per metabolizzare gli insegnamenti, quegli insegnamenti che non si passano con un certificato, ma con la fiducia, il tempo e il silenzio. Non sempre arrivano risultati e la maggior parte dei discepoli non accederà mai al titolo di guru, nemmeno vedrà traguardi luminosi in questa vita ma avrà la certezza di essersi arricchito durante il percorso.»
Il Viaggiatore sospirò, ma con un sorriso che sapeva di autoironia.
«E comunque, è chiaro.» Disse rivolgendosi direttamente a chi leggeva, «io non sono figlio del Paramparā, eh. Macché. Sono figlio del mondo delle formazioni. Ho fatto un 300 ore con attestato dorato, un 33 ore “chakra e cannella”, festival e work-shop con attestato a grafiche yogiche; persino un intensivo da 250 ore in India, dove tra un pranayama e l’altro cercavo me stesso… e il segnale WiFi, ma lo trovavo solo sulla terrazza.»
Si fermò un attimo, come chi sa ridere di sé ma anche pensare.
«Non rinnego nulla. Ogni esperienza mi ha dato qualcosa, anche solo qualche buono sconto su tappetini eco-friendly. Ma se c’è una cosa che ho capito, è che non basta sommare ore per diventare insegnanti. Né per diventare allievi. Ci vuole qualcosa che nessun corso certifica: la voglia di restare umili, curiosi, e soprattutto… presenti.» Poi, sistemandosi lo zaino sulle spalle riprese il cammino.
Aveva appena visto una locandina per un workshop “Yoga a fermentazione emotiva”. Non sapeva se ridere o iscriversi.

