«GIACOMO PIETOSO, L’ARTISTA CHE VEDE L’INCONSCIO (DI TUTTI NOI)» (intervista video)
Ci ho messo un po’ per elaborare il tutto, per questo mi son preso del tempo prima di mettere in parole la Mostra dell’artista Giacomo Pietoso. Inaugurata al Faro di Punta Imperatore in questa primavera appena arrivata è composta di 17 dipinti curati da Monica Picardi ed Anna Esposito. Grazie al manager Fabio Mattera resterà in esposizione permanente nella struttura attiva, ormai, da 132 anni. A separarla dal caos,155 gradini. Nel percorrerli sembra di scendere al confine del mondo. Dopo aver osservato i quadri di Giacomo Pietoso appare il filo rosso del “dis-tacco”, un salto duplice che cuce ogni opera assieme alle altre, ognuna parte di un “Tutto”. Strano scoprire che questo “Tutto” somigli a “flutto”.
A quell’onda marina dalla potenza inaccessibile che si abbatte sulla costa e, infrangendosi, irrompe nel fragore dello schianto con le correnti che s’inabissano nel mare dando vita a un gorgo che trascina verso il fondo e risale su, verso la profondità della vetta. Il suono del mare che si modella in forme variopinte, un’onda dal movimento immobile, dinamico e inesorabile. Acque in cui ci si può trovare immersi, in un senso di solitudine simile a quello di un naufrago aggrappato a un pezzo di legno in mezzo all’oceano nell’infinito malinconico delle emozioni che si alternano le une alle altre, mentre la corrente lo trascina chissà dove.
L’opposizione del confine, l’amore per la vita, il Limes, la resistenza dell’uomo simbolico ritratto dal Faro nei confronti di un ammasso emotivo e caotico che, proprio lui, deve saper disgregare in gocce e particelle minute per imparare a riconoscerlo. Un complesso sistema che si proietta volontariamente nell’essere umano e nella sua condizione quotidiana, divenendo preda del flutto insondabile di quel “Tutto” che lo rappresenta, lo compone, lo costituisce e lo anima nel suo tentativo di arrestarne la corsa, vivendo.
Chi è che vive veramente? Che cosa è che resiste per non lasciarsi trascinare verso il fondo? Questo e molto altro echeggia nelle opere di Giacomo. Ciascuna è messaggera di qualcosa, portatrice di uno stato d’animo, di una preoccupazione, di un appunto che si fa punto e posizione. Ognuna è parte di un senso più ampio posto tra il Faro ossia l’uomo immerso nella sua vita, e l’incognita di ciò che potrà accadergli mentre l’incertezza del domani si fa spazio nel presente apparentemente visibile nella pretesa di saperlo riconoscere. Il fondo occulto di un disegno di cui proprio l’umano, suo malgrado, è chiamato a conoscere.
C’è stato chi, durante la presentazione dei suoi quadri e del libro di poesie “Vieni al Faro”, ne ha rilevato la somiglianza con Massimo Troisi. Nel modo di parlare di Giacomo c’è tutta la sua semplicità disarmante come nel comportamento e nella maniera di esprimere concetti genuini e diretti. Nella semplicità, però, si nasconde la complessità e Giacomo, che nel 2008 è stato vittima di un incidente che l’ha privato della vista dopo vari giorni di coma, è soprattutto un sistema complesso. Semplice ma multiforme. A tratti ingenuo e – come suggerisce l’etimo della parola – libero. Si percepisce dalle sue opere. Alcune sono in grado di catapultarti in una dimensione che forse non ha nulla a che vedere con il momento in cui si osservano, quasi fossero immagini delineate e simboliche, finestre di un infinito che si manifesta dopo aver rimosso la Pietra dal Sepolcro.
In altre arriva il suono dell’onda che si plasma, la vibrazione inquieta – o “irrequieta”, parola e status interiore su cui più volte l’artista ha posto l’accento – di un uomo che non può più aggrapparsi ai propri occhi ormai perduti, costretto a dilatare l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto per stare nel mondo e, quando può, uscirne. A fare del suo corpo un’antenna, comunicare con l’esterno nel tentativo di percepire la vibrazione di altri esseri umani. Chissà che cosa ha sentito mentre abbiamo parlato. Forse arroganza che però mi è servita a nascondere altro. In altri suoi dipinti si sente il mare tramutato in gocce dopo essersi spaccato sugli scogli o il sibilo dell’aria lacerata che avvisa la scure scagliata per tagliare il cervello e la percezione in due lasciando che si sveli la separazione tra piani. Un mondo profano e uno Sacro, lo scontro tra la superficie dell’apparente certezza del presente e l’imponderabilità del dubbio che mette chiunque di fronte all’interrogativo su che cosa accadrà domani o tra qualche minuta piccola frazione di secondi.
L’inconscio – a un tempo, singolo e collettivo – attraverso i dipinti di Giacomo Pietoso si fa largo nel conscio nell’esperimento di mostrarsi a chi può vederlo e udirlo. Non con la vista ma col cuore, nel battito ritmato dall’assordante rumore dell’onda. Giacomo Pietoso, descrivendo se stesso attraverso i suoi dipinti racconta il proprio paradosso che è quello di tutti noi. Il Faro che resiste al mare, il sorvegliante del confine, il guardiano della soglia.
L’artista che non può più vedere si affaccia sul precipizio inseguendo il senso profondo dell’esistenza nel caleidoscopio delle sue sfumature. Per coglierlo, spedirlo in superficie e farne forme visibili. Nei suoi quadri si va oltre l’analisi psicologica. Si va nell’altrove. Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Godetevi il viaggio. Quei dipinti – composti, scomposti, uniti o separati – sono lettere, frasi, concetti appesi ai muri. Fogli bianchi che invitano a tuffarsi nell’introspezione di se stessi, dentro se stessi, per riempirli di inchiostro indelebile. Restando saldamente aggrappati mani e piedi alla terra mentre granelli di gocce marine si spiaccicano sul viso. Sul limine, tra ciò che si può scrutare e quel che invece è nascosto alla vista. Giacomo, lo vede. Senza occhi, perché non ne ha bisogno.