I TRE CIPPI FUNERARI DI MARMO NELLA BASILICA DI SANTA RESTITUTA A LACCO AMENO
Il secondo dei tre cippi funerari di marmo presenti nel sagrato della Basilica di Santa Restituta a Lacco Ameno, presenta un’iscrizione funebre. Il cippo, murato un tempo di fronte a quello di Seia Spes. L’iscrizione, iniziando con la parola “Memoriae”, sembrerebbe di sapore Cristiano, se non avesse ai due lati, scolpito in risalto la patera (piatto) a destra, e l’urceolo (anfora con manico) a sinistra: i tradizionali simboli funebri che i pagani usavano per i loro defunti. Esso annuncia: “Alla memoria di Saluvia Nevilia figlia affettuosissima, i genitori Gemino ed Artemide (fecero il cippo).

Ma cos’era il paganesimo?
Con il paganesimo intendiamo tutto il rapporto religioso che avevano i romani con il mondo che li circondava, e poiché pagano viene da pagus = villaggio, quindi abitante del villaggio, tratteremo non della religione ufficiale ma di quella che in modo ufficioso si svolgeva nei paesi e nelle campagne.

Il termine pagus fece parte del linguaggio amministrativo romano, indicando una circoscrizione territoriale rurale (al di fuori dei confini della città), di origine preromana e poi romana, aventi un culto locale.
All’interno del pagus vi erano diversi vici, in ognuno dei quali risiedeva il Magister. Il vicus, era un aggregato di case e terreni, rurale o urbano, appartenente ad un pagus che non aveva alcun diritto civile come il municipium o la colonia romana.Nel pagus non c’erano i sacerdoti ufficiali pagati dallo stato, l’unica comunicazione che i villaggi ricevevano mediante i messi postali erano le date delle feste mobili, ma il resto era affidato ai rurali, ai contadini pater familias per alcuni riti, ma per il resto alle donne.
Se nel periodo monarchico fu Numa Pompilio a sollecitare il culto degli Dei aggiungendo le divinità più antiche del suolo sabino, e se al tempo di Romolo, col ratto delle sabine, furono le sabine stesse a portare a Roma i loro Dei.
Nell’impero romano fu grazie ad Augusto che le vecchie divinità, a volte abbandonate o almeno trascurate, ebbero nuova vita, attraverso i nuovi templi, il restauro degli antichi e i nuovi sacerdoti preposti.
Dunque i romani avevano i nuovi Dei, i vecchi Dei e gli Dei di importazione. Verso le altre religioni avevano tolleranza assoluta, o almeno erano tolleranti con chi era tollerante con loro.
Vero è che il politeismo è portato alla tolleranza al contrario dell’intollerante monoteismo, in quanto il primo già presuppone divinità diverse mentre il secondo riconosce un’unico Dio, ma comunque si ammettevano a Roma anche divinità straniere, purchè non pretendessero di dettare legge sulla religione romana.

Ma per capire tutto ciò occorre tener conto della mentalità religiosa romana, che era passata da una religione animistica ad una politeistica senza aver perduto la prima. Accanto alla rigida liturgia della Triade Capitolina con tutti gli altri Dei del resto importati soprattutto dalla Grecia ma pure dall’Etruria, e accanto poi alle arcaiche divinità italiche, costituite da una Dea Madre che partoriva un Dio figlio, c’erano gli spiriti o geni della natura, che non erano né buoni né cattivi, ma assolvevano come potevano alle loro funzioni. I romani credevano non solo agli Dei, ma ad un mondo vivo e animato che stava in ogni luogo della natura, là dove c’era un albero, una roccia, una grotta, un torrente, una collina, un bosco, una fonte, un cespuglio, una pianta, un fiume, un lembo di mare. C’erano così i geni dei luoghi, e le ninfe e i satiri.
Fonti: romanoimpero.com
Don Pietro Monti: Ischia, preistorica, greca, cristiana, paleocristiana. Pagg.109-110.
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